Si tratta della raccolta di poesie scritte nel dialetto molisano di Termoli, con allegata traduzione in lingua italiana, dell’Autrice Antonietta Siviero, sotto il titolo “Termule ndù core” (“Termoli nel cuore”). È possibile seguire una doppia strada di esegesi dei testi: quella dei temi affrontati e quelli dell’importanza poetica di un dialetto.
I concetti esposti poeticamente sono molti, tutti sentiti razionalmente e soprattutto con una grande vera partecipazione emotiva. E, cosa rara ed eroica, i temi sono del tutto contro-corrente rispetto alla dilagante ideologia politico-culturale che oggi pretende di appiattire i sentimenti, di alterarli, di cancellare l’identità di un popolo, soprattutto di una comunità contenuta e genuina come quella termolese. E già questo è motivo di vanto e di interesse per l’opera della Siviero, che nella breve nota di copertina fa scrivere o scrive che è importante rinnovarsi ma guardando sempre a quello che si è stati, per sentirsi fieri della propria identità.
Iniziamo dal Motivo del cambiamento, in peggio, dei tempi attuali (poesia ““Chiove”, Piove”). La pioggia va a bagnare, piano piano, i luoghi belli di Termoli, quasi a voler indicare e sottolineare la loro metamorfosi fisica e semiologica: i topi che spadroneggiamo sul muraglione”; il faro imballato e coperto da così tanti anni che la poetessa non ricorda più nemmeno come è fatto; la fontanella che piange insieme alla pioggia, perché è ostruita e la sua acqua puzza; le strade piene di fossi, ora piene di pioggia, pericolose perché fanno scivolare e rompere “’u musse” (“il muso”). Si arriva alla bella immagine di “Chiove, ogne gocce me buch’ ‘u core” (“Piove, ogni goccia mi buca il cuore”). In realtà il cuore dell’Autrice è Termoli, che, trasformata dal cemento e dall’immondizia mal gestita, è trasformata in “buchi” e in “odori cattivi”. Bene appare l’interiezione conclusiva: “Chiove, velesse tande sendì/ addore de viole”(“Piove, vorrei tanto sentire odore di viole”).
La lode del tempo passato (il “temporis acti” di Orazio) è brillantemente confermata dalla bella “Lettera a Gesù Bambino”, inviata dall’Autrice in occasione del Natale! Ritorna la “tristezza per le troppe cose che vanno storte: (“tenghe dind’ ‘u pitte ‘na tristezze/ pe troppo e cose che vanne storte”); per il mondo sottosopra (“Pu munne che va sottasope”): per i fiumi avvelenati, per la grandine che stranamente fa danni e viene spalata anche nella bella stagione, l’estate (“A staggione ce spale a granelle”). Proprio quest’anno, nell’estate 2019, in Abruzzo, pallottole di grandine enormi hanno distrutto automobili e tetti di case, a Pescara e a Francavilla fino a Vasto! Coraggiosamente l’Autrice evidenzia il capovolgimento attuale di certe sentenze giuridiche, che, in ossequio a certe tendenze ideologiche, premia i ladri e condanna gli onesti (“’u ladre ghé premiate/l’uneste cundannate”). L’Autrice così passa con veemenza e con fermezza a stigmatizzare i cambiamenti essenziali morali, etici, sociali, dei giorni nostri: l’utero in affitto (“mo’ l’utere s’affitte”), l’adozione di un figlio in una famiglia fatta di due donne (“e ‘u stesse fijje ddu’ femmene ‘u ponne fa”). Poi il tema cruciale: quello delle ONG (“mo’, ce stanne ONG”), con grande vantaggio degli scafisti e svantaggio di povera gente illusa e mandata allo sbaraglio. Dopo la denuncia, ecco una preghiera, travestita da “consiglio”: “Bambinello mio, i tempi sono cambiati…/ quest’anno non nascere nella stalla…/ Vai nella mente di quei giovani/ che si distruggono con la droga…Avvita nella carne della gente/ buoni sentimenti” (“Va dind’a mende de quille giuvene/ che ce strujiene a vite cu’ papagne”…”Avvite ‘ndà carne da gende/ bune sendimende”.). Infine, la chiusura particolarmente indovinata come trovata tra ironia, speranza e fede religiosa: “Buon Natale, Gesù Bambino!”
Trattiamo ora dell’importanza del Dialetto. Tutte queste tematiche sono state espresse in vero dialetto molisano-termolese, come si è potuto constatare dalle aggiunte fatte con versi in vernacolo puro! Ed è veramente un particolare non indifferente, aver dato credito e valore alla lingua dialettale. Contrariamente a quel che si pensi, il dialetto NON è una lingua minore, ma una VERA lingua; e se possibile anche più incisiva, fresca, profonda dell’italiano puro. Il viaggio poetico effettuato sul treno del vernacolo locale, risulta più intensamente conoscitivo e più emozionalmente coinvolgente.
Ascoltiamo la poetessa (in “Quille che vulesse” = “Quello che vorrei”): “Vulesse camenà vicine a sponde du fiume…ma sende puzze de fracedume” (vorrei camminare sulla sponde del fiume, ma sento puzza di fracidume”). E ancora: “Allore pertasse i rose a fasce e mazze,/ p’ogne pendone, pujje e chiazze…/ pe fa sendì a’ddore de Termele a tutte quande” (Allora porterei rose a fasci e mazzi/ per ogni spigolo, poggioli e piazze…per far sentire il profumo di Termoli a tutti quanti). Le sonorità apparentemente rozze e dure del dialetto si rivelano più efficaci a trasmettere sia le immagini negative, sia quelle poetiche.
La forza del dialetto è dovuta alla necessità di far sentire unita e compatta una comunità. Il vernacolo trasmette e conserva meglio la cultura popolare, attraverso messaggi di saggezza, proverbi, aneddoti, racconti gustosi di quel paese o piccola città, e anche attraverso eventi leggendari. Si rinsalda così l’affinità, l’amicizia, la parentela di una koiné ben definita, e la tendenza a salvaguardarla e a difenderla da intrusioni esterne!
La poesia dialettale ancor più accentua, grazie all’emozione suscitata dalle parole locali, genuine, apprese fin dall’infanzia, quell’orgoglio della propria origine. Antonietta Siviero lascia nella sua raccolta un segno molto evidente di amore, di dedizione, di fierezza per la sua Termoli, quella dei tempi passati, ordinata, semplice, genuina, non sporcata da false verità e riprovevoli comportamenti sociali (il controsenso di una famiglia che non è famiglia, l’aggressione degli scafisti e delle ONG, la sporcizia, il “fracetume” (“fradiciume”), la fontanella che “nen te cchiù nu selluzze (non singhiozza più)” perché “l’hanne ‘nderzate/ che l’acque che puzze (l’hanno ostruita/ con l’acqua che puzza”).
E di là da questi risentimenti riusciamo a trovare anche versi di allettante bellezza. Nella poesia “Le stelle cascande” (“Le stelle cvadendi”): “A une a une c’appiccene i stelle/ sope a cuperte du munne…cu core tremarille” (“Ad una ad una, si accendono le stelle/ sulla coperta del mondo…col cuore tremante); “Ne vulesse acchiappà une/ pe m’arenchji de luce” (ne vorrei prendere una/ per riempirmi di luce”). Con pochi fonemi e semplici parole nate e conservate dal popolo, si esprimono sentimenti di partecipazione al miracolo della nostra galassia, col desiderio di arricchirsi della sua luce, di notte.
La poesia “L’amore” è dedicata all’amore vero, quello che tutto il mondo conosce e canta (“ca tutt’ ‘u munne/ canosce e cande”). Nell’amore, “’u core mi’ ghé a casa tu/ ‘u core tu ghé a casa mi”…”(“il cuore mio è la casa tua/ il cuore tuo è la casa mia”). Attribuite tante qualità positive all’amore, la poesia si conclude con “L’amore, quille vere ghé tutte quiste/ e pure ‘cchiù” (“l’amore, quello vero, è tutto questo e pure più”). In quel “più” così sguarnito e perentorio è concentrata una miriade di verità che fanno andare avanti il mondo e la nostra specie.
Le immagini che colpiscono molto sono quelle contenute nella poesia “’U sole ‘nnammurate” (“Il sole innamorato”): “ ‘mbizze ‘mbizze a punende/ ‘u sole infucate e putende/ fa ‘u pazziarille che Termele”, che si traducono con “sull’orlo di ponente/ il sole infuocato e potente/ fa il giocherellone con Termoli”. Molto suggestiva la personalizzazione del sole che gioca con la città del cuore! E quell’ “‘mbizze ‘mbizze” significa “sul pizzo (picco, vetta estrema) di ponente” ed è molto delicato e originale. La poesia è chiusa dall’immagine visivo-sonora del sole che si “appisola dietro la Maiella (“‘U sole c’appapagne/ arrete a Majjelle”); mentre “lontano la campana/ risponde all’ultima fiammella” (“lundane a cambane/ responne a l’uteme fiammelle”). Sono versi in cui mi sembra necessario far notare che, sia la versione dialettale, sia quella italiana, riescono a rendere coinvolgente la dolcezza del tramonto dietro la Maiella, e il suono sereno della campana d’una chiesa, che risponde all’ultimo guizzo di luce.
In questo caso la poetessa Siviero è riuscita a conciliare la bellezza dei due linguaggi.
Il sentimento e l’estro poetico ha compiuto una sorta di miracolo letterario.